Progetto di presa in carico multidisciplinare in ambito ospedaliero dei piccoli pazienti con Sindrome di Amplificazione del Dolore: la separazione tra fatti e vissuti
Brigitte Dell'Anna
Introduzione
L’obiettivo è attivare una riflessione sulle modalità di lavoro in ambito ospedaliero, per dare un contributo all’esperienza dei professionisti sanitari facilitando la costruzione della multidisciplinarietà ed il lavoro d’equipe per il benessere del paziente. Il modello propone una strategia di intervento psicologico clinico volta ad affiancare la competenza medica del “curare” alla competenza psicologica del “prendersi cura”, strategia fondata sul superamento del setting psicoterapeutico e sulla sospensione dell’azione organizzativa (Carli, 2013). Il solo intervenire sul problema organico comporta l’ignorare i vissuti, le angosce che si attivano nel paziente (Fornari, 1976). Appare, dunque, sempre più evidente che l’agire basato su un approccio multidisciplinare, la collaborazione e condivisione tra professionisti, tra competenze differenti, può garantire la presa in carico globale del paziente in un’ottica di benessere.
L’attività nell’UOSD di Reumatologia e Immunologia pediatrica
Nell’UOSD di Reumatologia Pediatrica del Vito Fazzi vengono effettuati percorsi diagnostici e terapeutici in regime ambulatoriale e di Day Service/Day Hospital per bambini e adolescenti con diverse malattie croniche che in alcuni casi sono caratterizzate da dolore cronico muscolo-scheletrico come le sindromi di amplificazione del dolore e la fibromialgia giovanile. La fibromialgia giovanile rientra nel gruppo delle sindromi da amplificazione del dolore e si caratterizza per la presenza di dolore muscolo-scheletrico cronico (da almeno 3 mesi) diffuso, spesso associato a sintomi extrascheletrici (Weiss et al, 2018). I dati relativi alla prevalenza in età pediatrica, che si assesta tra l’2% e il 6% con un maggiore interessamento del genere femminile e dell’adolescenza (Kashikar-Zuck et al, 2014), presentano un ulteriore fattore di variabilità dato dalla mancanza di criteri diagnostici definiti. La scarsa conoscenza della patologia conduce ad un notevole ritardo diagnostico (Coles et al, 2021). Spesso, infatti, nei bambini e negli adolescenti i sintomi di affaticamento, stanchezza, dolore e difficoltà nella mobilità vengono associati a sospette patologie organiche, con esecuzione di visite specialistiche ed esami strumentali privi di utilità. La fibromialgia giovanile, al pari di quella dell’adulto, è una malattia insidiosa ed invalidante, responsabile di una significativa morbidità e ridotta qualità di vita per i pazienti e le loro famiglie (Weiss et al, 2018). Il 20% dei giovani pazienti con fibromialgia giovanile, inoltre, diventano adulti con dolori cronici, con conseguenze sulla collettività e costi notevoli in termini di visite mediche eseguite e ore di lavoro perse (Weiss et al, 2018). Attualmente nella fibromialgia giovanile non ci sono farmaci approvati; inoltre, considerati i potenziali effetti collaterali (per es. sonnolenza, aumento di peso) il primo approccio in età pediatrica/ adolescenziale è di tipo non farmacologico. Solo in caso di quadri particolarmente severi, di coesistenza di patologia neuropsichiatrica e/o di fallimento delle terapia non farmacologica, si potrà procedere con l’uso di trattamenti che agiscano a diverso livello sul dolore. Risulta, dunque, necessaria una gestione multidisciplinare di tali patologie, in cui la presenza dello psicologo è fondamentale nel percorso di diagnosi e cura del piccolo paziente e della sua famiglia.
La complessità della diagnosi psicosomatica Alessandro Butera - Remembering The Tate Modern
Nella gestione clinica è usuale che un medico si rivolga ad un suo collega specialista in un’altra branca se ha il ragionevole dubbio che i sintomi presentati possano esser congrui con una condizione patologica che non è di sua competenza. La psiche viene considerata un “pezzo” più o meno misterioso dell’individuo che si aggiunge ad altri “pezzi” noti (Furlan e Mancini, 1980). In primo luogo, quindi, il termine “psicosomatica” viene formulato in modo ex negativo (“disturbo fisico senza cause organiche”) per quanto riguarda i rapporti di causalità (“e quindi di origine psicologica”), tanto che viene confuso con “disturbo psicogenetico” o addirittura “immaginario” non solo nei mass media ma anche da medici, psichiatri e psicologi (Miresco e Kirmayer, 2006; Stone et al. , 2004). Ciò comporta situazioni in cui la maggior parte dei pazienti con disturbi fisici che giunge dallo psicologo ha ricevuto una diagnosi pre-costituita ex negativo, caratterizzata, dunque dall’aver escluso cause organiche dal medico inviante; ciò porta lo psicologo a voler cercare a tutti i costi una causa psichica anche dove questa non c’è. Lo scenario della consulenza psicologica per un paziente psicosomatico si distingue dallo scenario tipico della consultazione psicologica. Solitamente, lo psicologo ha di fronte un paziente con un problema di natura principalmente psicologica che, per questo motivo, ha chiesto aiuto o che è stato inviato da terzi sulla base dei disagi presentati; risulta molto difficile che il paziente “psicosomatico” si rivolga allo psicologo di iniziativa propria o della propria famiglia in caso di minori. Nel contesto ospedaliero, invece, lo psicologo si trova di fronte a sintomi non coerenti con la propria formazione professionale e spesso con la propria teoria di riferimento del funzionamento mentale e deve basarsi sull’assunto, non indagabile con i propri strumenti, che l’origine e/o l’entità dei sintomi riferiti non derivi da una causa organica (Solano, 2013; Baldoni, 2010; Fava et al, 2014). Il rischio è quello di approdare ad uno dei due poli estremi che hanno a che fare con “all in your body” oppure “all in your mind”, dunque o considerare il disagio fisico del paziente come patologia organica oppure considerare qualsiasi sindrome fisica riferibile ad un fattore psicologico. Sono due polarità estreme di impotenza e onnipotenza della psicologia, supportate anche da molta letteratura, che influenzano negativamente l’osservazione con importanti bias teorici. I pazienti rappresentano, invece, una costellazione complessa di elementi tanto somatici quanto psichici (Porcelli et al, 2004). I principali modelli a cui lo psicologo può far riferimento sono il modello biopsicosociale di Engel (1977), secondo il quale ogni malattia è un’entità multi- fattoriale, e l’assunto che afferma che la valutazione diagnostica va effettuata in positivo, ossia su ciò che si osserva, in una parola su ciò che c’è, in contrasto con il criterio ex negativo che parte da ciò che non c’è, ossia le evidenze di spiegazione biomedica. Il punto quindi non è ricercare la causa della patologia, né se tale patologia è da considerarsi psicosomatica o meno in modo binario, bensì individuare tutto ciò che è correlato al disturbo fisico sotto il profilo psicologico, dalla prevenzione al trattamento alla riabilitazione (Porcelli, 2009). Si tratta per lo psicologo clinico di pensare e lavorare con modalità diverse, tentando di differenziare per quanto possibile il tipo e il livello di associazione fra fattori psicologici e condizioni fisiche.
Quale ruolo per lo psicologo? Fase istituente del Progetto
Dal 2021, nell’UOSD di Reumatologia e Immunologia pediatrica, si è avviato un processo di costruzione e co-costruzione tra medici e infermieri del reparto che, col tempo, ha portato a numerosi sviluppi all’interno del servizio stesso. Nel 2021, in reparto, non era presente la figura dello psicologo e non venivano effettuate consulenze rivolte ai piccoli pazienti e alle loro famiglie. A partire dalla necessità e dalla difficoltà da parte del medico responsabile dell’UOSD di gestire al meglio il dolore cronico dei bambini/adolescenti, ebbe inizio la collaborazione con l’UOSD di Psicologia Ospedaliera coordinata dal responsabile, il dott. Giuseppe Luigi Palma. Poiché l’attuale modello di intervento sanitario, basato sulla sempre maggiore specializzazione delle competenze dei medici, prevede che diversi specialisti si occupino ciascuno della diagnosi e della cura di diverse patologie, è quasi inevitabile che la persona sia ‘frammentata’ nei suoi organi o apparati. Il ricorso allo psicologo, sino a quel momento, avveniva con alcune peculiarità, ben note allo psicologo clinico: l’invio risultava tardivo, essendo socialmente stigmatizzato, spesso quindi, in ritardo rispetto alla possibilità di un intervento efficace; l’invio era limitato ai casi nei quali la medicina si scontrava con l’impotenza (fallimento della medicina clinica) o di pazienti che inspiegabilmente non collaboravano (Carli, 1996, 1997, 2014) o con sintomatologie senza una precisa causa organica (concezione che ripropone la dicotomia mente- corpo); l’invio rappresentava, in altri casi, la manifestazione di un abbandono, dunque, le difficoltà psicologiche del paziente non riguardavano la medicina, potevano solo essere di intralcio. In tal modo, però, il processo di comprensione condivisa della sintomatologia del giovane paziente non era attuabile. In una prima fase del progetto, insieme ai medici e agli infermieri, abbiamo potuto sperimentare la nuova modalità come fallimentare, in quanto i piccoli pazienti e i caregivers, sentendosi selezionati, tra gli altri, come candidabili al colloquio con lo psicologo, hanno espresso una forte resistenza ad accettare il consiglio medico. In seguito a questo, spesso angosciati, i pazienti e i familiari abbandonavano il servizio e ricominciavano da capo con gli accertamenti medici in altri servizi alla ricerca di una diagnosi. Nel corso di diverse riunioni d’équipe, in accordo con i medici e gli infermieri, è stata pensata e condivisa un’altra modalità che potesse tener conto dei limiti precedentemente sperimentati: la co-presenza medico-psicologo. La presenza dello psicologo durante le prime visite reumatologiche, ha permesso una ri-narrazione della storia della malattia da parte dei caregivers e dei piccoli pazienti, con la possibilità di includervi nuovi elementi in precedenza non rilevati, perché al di fuori della cornice relazionale data per scontata da entrambi gli interlocutori. Si è giunti inoltre a definire una casistica di situazioni in cui si sarebbe potuto proporre un colloquio approfondito con lo psicologo, al di fuori dell’orario abituale di visita, una facilitazione offerta a tutti, facente parte del percorso di approfondimento, contemporaneamente a quello medico. Ciò ha permesso di inquadrare i casi osservati secondo un’ottica psicosociale, di discutere con il medico i casi osservati e di pensare e concretizzare, aldilà del lavoro di chiarificazione possibile da parte del medico e dello psicologo, un eventuale invio ai servizi territoriali competenti nei casi di domanda di intervento psicologico da parte del piccolo paziente e/o della famiglia. Dal 2021 ad oggi sono emerse anche richieste spontanee di consulenza psicologica da parte delle famiglie e il numero risulta in continuo aumento.
Riunioni di équipe
Il progetto prevede incontri a cadenza mensile in cui lo psicologo dà la possibilità a medici ed infermieri del reparto di condividere e confrontarsi sulle percezioni ed emozioni riguardo determinati cambiamenti organizzativi, criticità e risorse di ognuno. Lo psicologo ha il ruolo di condividere aspetti della cultura organizzativa utili per attivare una riflessione ed esplicitare le dinamiche presenti. Inoltre ha il compito di accogliere le richieste da parte degli operatori, analizzandone la domanda, dunque il senso che tali richieste hanno entro quel dato contesto organizzativo. Alcuni degli aspetti emersi durante gli incontri di equipe hanno riguardato i cambiamenti organizzativi del reparto nel corso degli ultimi anni, il ruolo degli infermieri rispetto alla gestione delle figure genitoriali nel processo di diagnosi e cura dei bambini/adolescenti e i significati emozionali del pianto del bambino durante le procedure invasive. In particolare, si è condivisa la modalità attraverso cui facilitare la rappresentazione di ciò che accade ai bambini e agli adolescenti nel percorso di diagnosi e cura. Gli infermieri e i medici hanno il compito di garantire una migliore partecipazione da parte del piccolo paziente durante le visite, i controlli e le procedure. Gli infermieri hanno accolto e dedicato tempo durante gli spazi di attesa da parte delle famiglie nei momenti precedenti alle procedure invasive al fine di individuare il genitore che più in quel momento poteva facilitare e sostenere il piccolo. Il sentirsi bene accolti, tanto su un piano ambientale, quanto su quello relazionale e tecnico-professionale ha posto le basi per un intervento efficace. In tale spazio l’infermiere ha facilitato una migliore comprensione delle procedure e degli interventi sia da parte del caregiver che dei piccoli pazienti, chiarendo ogni dubbio o perplessità in merito. Prima di riflettere e definire tali modalità, lo psicologo ha dedicato i primi mesi del progetto ad una attenta osservazione e presenza tri-settimanale in reparto durante le visite, le procedure e i momenti di confronto medico. Ciò ha permesso di “stare” nel contesto, di analizzare la cultura organizzativa propria di quel reparto specifico e di “cucire” gli interventi su misura.
Conclusione
Nell’ospedale, lo psicologo non incontra singole persone con un problema: incontra relazioni tra le persone, gli utenti dell’ospedale da un lato e il sistema sanitario dall’altro. Lavora girando per i luoghi dell’ospedale: “intercetta” relazioni e situazioni entro le quali può essere utile il suo intervento; lo può fare solo se è in grado di “vedere” quanto succede attorno a lui. La domanda concernente un suo intervento, non gli è rivolta direttamente; non può, quindi, rifugiarsi in una stanza aspettando che qualcuno si rivolga a lui, per trattare il suo problema. La funzione psicologica può trovare una sua efficacia offrendo la disponibilità a trattare quanto non è possibile esprimere con il personale sanitario, perché vissuta sul piano simbolico, quindi sul piano emozionale (Carli, 2013). Il progetto di presa in carico multidisciplinare sopra descritto ha permesso di organizzare percorsi di cura dedicati e ad accesso facilitato, garantire continuità e trasversalità tra promozione del benessere, prevenzione e trattamento, favorire la tempestività nel riconoscimento e nel trattamento dei fattori di rischio ed aumentare le competenze specifiche degli operatori attraverso una formazione dedicata. Tutte le attività sono state pensate e costruite con uno sguardo alla specificità del contesto, alla cultura di riferimento in un’ottica attenta alla trasversalità organizzativa dell’intervento psicologico e alla multidisciplinarietà nella presa in carico degli utenti in tutte le fasi del percorso di diagnosi e cura.
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