Psicoterapia e disturbi da abuso di sostanze. Dal trattamento supportivo alla cura fenomenologica
ANTONIETTA GRANDINETTI, FRANCESCO GRIECO - Psicologo-psicoterapeuta, Direttore U.O. Ser.D. 2 Salerno, dirigente medico-psicoterapeuta U.O. Ser.D. 2 Salerno
In questa sede si cercherà di puntualizzare un aspetto piuttosto controverso della terapia dei disturbi da abuso di sostanze, vale a dire l’intervento psicoterapico, nelle sue possibilità e criticità. Proveremo ad articolare il discorso, avvalendoci anche dell’ausilio di una narrazione clinica, al fine di sviluppare un abbozzo di discussione tesa a indicare le “virtuali” condizioni di possibilità che consentono la messa in opera di tale intervento.
Una questione che colpisce immediatamente è la scarsa considerazione di cui godono i disturbi da abuso di sostanze, in genere, nei programmi di formazione delle scuo- le di psicoterapia, emblematica testimonianza, probabilmente, del carattere ostico e spesso poco disponibile al cambiamento mostrato dai pazienti affetti da questa condizione clinica; la stessa definizione OMS di “malattia cronico-recidivante” probabilmente scoraggia dal prendere sul serio il lavoro psicoterapeutico diretto a un problema clinico di tale portata. Eppure innumerevoli esperienze, riflessioni e teorizzazioni hanno incardinato concrete prassi terapeutiche sul terrapieno solido dei trattamenti classici. È pur tuttavia evidente che i setting tradizionali necessitino di un adeguamento anche sostanziale allo specifico psicopatologico che i disturbi da abuso di sostanze esibiscono, cosa che impone alla stessa articolazione didattica il superamento di inerzie generalizzanti.
Ma procediamo con ordine: dalla tossicodipendenza – quale forma storicamente emersa dal contesto della modernità e prototipo su cui si è esercitato in senso esplicativo il pensiero clinico riguardo ai fondamenti e ai significati dell’uso delle so- stanze psicoattive genericamente definite “droghe” – agli attuali disturbi da abuso di sostanze patologiche, si è snodato un percorso di interpretazioni del fenomeno e di prassi di cura fatto di momenti descrivibili in maniera piuttosto agevole come fasi discrete di un cammino continuo, quantunque accidentato. Inizialmente è possibile inquadrare una fase paternalistica, sostanziata da una certa valutazione del compor- tamento tossicomane con molteplici incrinature moralistiche: senza abbandonare del tutto il concetto acritico di “vizio”, ridefinito in un’accezione sociologica tramite l’attributo di devianza, si procedeva all’attuazione di pratiche fondamentalmente rieducative. Successivamente è emersa una cultura più scientificamente informata, con presupposti di tipo liberale, che si poneva nella condizione di rispondere in primo luogo alle emergenze sanitarie e sociali (pensiamo alla cosiddetta “riduzione del danno”), e quindi provava ad attivare nel paziente un processo trasformativo che potesse fondarsi sui suoi bisogni effettivi e sulle potenzialità, per lo più inespresse, collocate nello stesso soggetto (il colloquio motivazionale ne è l’esempio più calzante e al tempo stesso ancor oggi più imprescindibile). Tuttavia, considerare i disturbi da abuso di sostanze come entità presentanti alla base una psicopatologia suscettibile di essere affrontata con gli strumenti utilizzabili in altre condizioni di disagio psichico, benché adattati in modo appropriato, ci sembra una matura necessità, rispetto alla quale siamo sollecitati a credere che non tutto il potenziale terapeutico esprimibile in tal senso sia stato ancora sperimentato, a parte esperienze pilota ancora di nicchia.
Un solo esempio, piuttosto promettente, che ci limiteremo a segnalare, è relativo alla questione del trauma complesso e dei suoi sviluppi sull’equilibrio psichico di un sog- getto. Esiste ormai una vasta letteratura sull’argomento che ha generato protocolli di intervento specifici e rigorosi2, specialmente all’interno del mondo cognitivista oltre che psicodinamico, con procedimenti terapeutici manualizzati, utilizzo dell’EMDR3 e della Mindfulness4. La condizione di abuso di sostanze, molto spesso, s’invera in una storia clinica complessa, con attaccamento disorganizzato, fenomeni dissociativi e disturbi della metacognizione5, per cui sarebbe auspicabile un trattamento che si concentri sugli sviluppi traumatici utilizzando gli strumenti adatti. Le esperienze in tal senso sono tuttora limitate a poche realtà di riferimento, ma sarebbe un notevole passo avanti estenderle il più possibile, con una sola indicazione imprescindibile: il contesto adatto a praticare tali procedure di cura sarebbe la Comunità (psico)tera- peutica6, una struttura riadattata a una visione avanzata della psicopatologia, che potrebbe fornire anche il necessario contenimento rispetto all’emersione di vissuti emozionali torridi che, lasciati sconsideratamente in libertà, destabilizzerebbero i pazienti e potrebbero provocare il ritorno alla modulazione emotiva ottenuta attra- verso il comportamento sintomatico.
Ma, a parte tale situazione ottimale, come poter intervenire, soprattutto in ambito istituzionale, sui disturbi da abuso di sostanze con una psicoterapia? Sorvoliamo sul caso di un paziente attualmente astinente e compensato o che magari presenti una condizione clinica meno seria, dato che in questi casi si potrebbe intraprendere una forma qualsiasi di terapia psicologica, e concentriamoci invece sui pazienti gravi, con compromissioni diffuse a vari ambiti vitali. Siamo qui di fronte a soggetti in genere fortemente disregolati, magari con disturbi di personalità marcati e varie complessità aggiuntive; una complicazione dopo l’altra che rende aggrovigliata la questione della cura e fa ben comprendere il carattere difficile di una tale psicopatologia.
Una risposta generalmente efficace e facilmente approntabile è data da forme di counseling, di colloqui psicosociali che si limitano a rispondere a obiettivi limitati su un piano sostanzialmente di realtà, colloqui che vengono messi in atto anche da figure non specialistiche (quindi non solo da psicoterapeuti), formate al tipo di inter- vento cui sono chiamate, intervento consistente per lo più nel cogliere le questioni di fondo e nello stimolare una possibile risoluzione7. Non faremo altresì riferimento, limitandoci alla semplice citazione, alla terapia cognitivo-comportamentale “classi- ca”, trattamento fortemente manualizzato che incrocia esplorazione e modificazione di contenuti consci e preconsci con virile piglio psico-pedagogico e che sostiene va- lidamente alcune operazioni di cura come ad esempio la prevenzione della ricaduta8. Rifacciamoci piuttosto alla classica distinzione tra interventi espressivi e supportivi, con le annesse mescolanze di ingredienti.
Più volte è stato proposto uno schema che introduce una prospettiva dimensiona- le, al cui interno poter collocare le forme di trattamento secondo il classico bino- mio espressivo/supportivo; se da un lato polare si situa la psicoterapia espressiva (esemplificata innanzitutto dalla psicoanalisi, classicamente intesa), procedendo verso l’altro polo ritroviamo successivamente forme miste a diversa gradazione di ibridazione, per approdare finalmente alla psicoterapia supportiva.
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